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Non c'è community senza attività sociale.

  • Immagine del redattore: Alice Manieri
    Alice Manieri
  • 23 mar 2020
  • Tempo di lettura: 3 min

Sono le attività sociali che generano vicinanza, senso d'appartenenza e comunità.



Ormai sono anni che si parla di società fluida ed è giusto ricordare che in tale società, anche la cultura è fluida.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. I flussi globali (qualora voleste approfondire) di persone, cose, idee, storie e pensieri orientano incessantemente la visione del mondo dei singoli. Parlo di singoli e non di comunità poiché in questo interscambio culturale continuo fra generazioni, popoli e società sono i singoli individui che scelgono a quali simboli, immagini e filosofie appartenere.


Ognuno di noi sceglie quegli elementi culturali con cui entra maggiormente in risonanza (a prescindere della comunità d'origine di tali simboli), reinterpretandoli e ricombinandoli così da definire una personalissima visione e relazione con il mondo.

È questa la cultura fluida, che genera un'identità fluida in tutti noi.

Una cultura individualizzata e dinamica, soggetta alla volubilità dell'essere.


In un simile contesto, anche il concetto di comunità deve necessariamente cambiare e divenire fluido (ci si chiede che ruolo abbia in un simile contesto la società).

Gli individui si spostano da una community all'altra, in funzione delle istanze prevalenti in quel dato momento temporale e situazionale.

Essi non sono più riconducibili ad una sola stabile comunità, ma ad una pluralità incostante di aggregazioni che, come un mare increspato, si creano e disfano in continuazione.


Come fanno i brand, allora, a seguire questa marea incostante? Si può creare una community stabile, si può fidelizzare?


A questo proposito trovo molto interessante i dati raccolti da Influencer Marketing HUB che, ogni anno da 2016, registra un aumento del 50% degli investimenti nell'influencer marketing. Il 91% degli intervistati considera questo tipo di marketing funzionale per il 65% delle volte.



Dallo studio emerge che nel 2020 il 55% degli intervistati intende spostare il budget previsto per il content marketing all'influencer marketing.




Da ciò è possibile trarre due conclusioni: la prima è che le aziende hanno trovato un modo per ottimizzare la propria comunicazione sui canali social; la seconda è che per costruire o allargare la propria community, fanno uso di aggregatori spontanei.

Usano gli influencer come medium per raggiungere le comunità la dove sono, dove si creano.


L'influencer diventa un mass-media.


Da uno studio simile fatto da Digital Media emerge un fatto interessante:


Del resto anche dal nostro personalissimo osservatorio non manchiamo di constatare come certi influencer [ma anche celebrities] un giorno promuovano un brand e il giorno dopo un altro diverso, se non addirittura concorrente.

Gli influencer pubblicizzano un po' tutto, anche brand fra loro concorrenti.

Benchè questo tipo di marketing consenta di raggiungere velocemente le comunità, anche di grosse dimensioni, non permette di fidelizzarle. Non permette di costruire una brand community, poiché il vero elemento aggregatore resta l'influencer.


A questo punto, è essenziale tornare al concetto di comunità e soprattutto di cultura, poiché (come ci insegna la sociologia) è la cultura a generare comunità.

Ebbene, per l'antropologia la cultura non sta in uno o nell'altro elemento o individuo, ma sta nel mezzo, nella relazione che li collega.


La cultura è così un concetto attivo, "che si fa". Non è qualcosa che si osserva o si impara più o meno passivamente.


La cultura è un'attività sociale.


Ecco allora che per i brand che desiderino costruire una propria community, devono ripensare alla propria comunicazione come a qualcosa di attivo, interagente e partecipato.

Non basta una comunicazione transmediale e pluralizzata. Il vero storytelling si fa avviando azioni concrete, tangibili, a cui le persone possono aderire, ma soprattutto partecipare.


Azioni che concretizzino il patrimonio valoriale del brand.


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